Ernie-K-Doe – L’imperatore di New Orleans

di Andrea Lupi

Ebbi la fortuna di incontrarlo dieci anni fa che, per quella sorta di iperbolica iconografia kitsch cara alle star degli anni 50/60, si faceva ancora chiamare “The Emperor of the World”; Ernest Kador, in arte Ernie-K-Doe fu per un breve ma fulgido periodo lì a contendersi il trono con personaggi come James Brown, Little Richard, Chuck Berry e perché no Elvis stesso. La sua, una storia come quella di molti musicisti e artisti in generale, una lunga gavetta, momenti di entusiasmo, poi depressione, alcolismo e quando meno te lo aspetti un grande successo, una hit da decine di migliaia di copie, un primo posto nelle charts che lo catapulta nei migliori teatri di America con i suoi vestiti scintillanti di strass e quei riccioli da uomo di colore del sud finalmente cotonati e vaporosi a mo’ di Luigi XIV. Dietro c’era lo zampino di un altro grandissimo della Crescent City, Allen Toussaint (andate a sentirvi il suo splendido ultimo album “The Bright Mississippi”) che scrisse e arrangiò perfettamente quella hit, apparentemente insignificante e leggera ma nella quale moltissimi si sarebbero identificati : “Mother-in-Law”, ovvero La Suocera. Un successo talmente enorme che poteva veramente contendere il ruolo di headliner di un festival itinerante o di una serata di gala ai personaggi succitati. Il brano era una riuscita miscela di ironia e linguaggio popolare cucinato in una salsa soul-funk-r’n’b non troppo impegnativa ma irresistibilmente coinvolgente; Ernie-K-Doe completava l’opera con una voce strepitosa e con una presenza scenica luminescente, nonché con salti, mosse e pseudo-svenimenti propri da soulman navigato.
Non riuscì mai più a ripetere quel tale successo, ma quella hit del 1961 gli si cucì addosso per il resto della sua vita.
Circa quarant’anni dopo, per rompere la monotonia di un pomeriggio piovoso nella casa di Alexander street, il mio amico Rick, nel suo giorno di libertà dal lavoro di cuoco in un rinomato ristorante del French Quarter, togliendomi con risolutezza il basso di mano mi disse: “andiamo da Ernie-K-Doe!”. “Chi? Quello di Mother-in-Law?”. “Proprio lui!”
E così ci infilammo in un taxi che in meno di venti minuti ci portò in Claiborne Avenue, incrocio con Columbus, appena fuori del Tremé district, quanto basta per sentirsi nel peggiore dei neighborood. Abbandonati dal tassista sotto un cavalcavia sull’altro lato della avenue, prontamente attraversata, ci trovammo di fronte ad una casa isolata di alcune decine di metri dalle altre, strutturalmente abbastanza vetusta, ma completamente affrescata, così come si usa agghindare in Italia certi centri sociali, con coloratissime immagini dell’artista e altre delle allegorie tipiche della Louisiana. Entrammo e ad accoglierci fu la moglie, Antoinette, che gentilissima ci disse che il locale era ancora chiuso ma che avremmo potuto cenare con loro prima dell’apertura e che Ernie sarebbe arrivato di lì a poco. Capii che non aveva il coraggio di farci aspettare fuori, dato il quartiere. Cosicché avemmo tutto il tempo di girare il piccolo lounge-music hall-museo tanto denso di memorabilia in ogni angolo e su tutte le pareti da ricordare a momenti una pinacoteca o un pawn-shop; di fatto era una incredibile immersione nella storia della musica americana, del costume, del senso di rivalsa (exploitation) del popolo nero che passa attraverso una musica intensamente vissuta e un senso dello spettacolo sfacciato ed ubriaco.
Gironzolando, finii in una stanza, quasi un ripostiglio, dove nella penombra, seduta su una poltrona trasandata, c’era una vecchia assopita, che la sorella di Antoinette mi disse essere niente popò di meno che Lei! The Mother-in-Law! Una figura leggendaria, in tutta la sua banale ed amabile umanità. Venne l’ora della cena e del nostro incontro privato con l’Imperatore, un piccolo uomo, gracile, dai capelli cotonati e neri e dagli occhi pungenti, che si dimostrò un ospite gentile ed accogliente, realmente dividendo la propria cena con degli ospiti inaspettati. Le sue risposte alle nostre domande erano semplici ma affatto banali; voleva essere capito e cercava di lanciare dei messaggi spirituali. Fui così colpito dall’umanità di quest’uomo che per non offenderlo chiesi del pane per pulire il piatto dal sugo di uno spezzatino quantomeno discutibile.
Venne l’ora dell’apertura, Ernie si ritirò nel suo camerino, ed il Mother-in-Law Lounge cominciò a popolarsi di persone di colore, facevamo eccezione noi e altri due ragazzi bianchi, per un totale di circa trenta persone che faceva apparire la sala concerto come se fosse affollata. Dopo una bislacca introduzione di un tastierista, probabilmente appena arrivato dalla parrocchia accanto, assai ben attrezzato con tanto di fastidiosa drum-machine che usava per darsi un minimo di quadratura ritmica e per auto-convincersi di essere professionale, finalmente entrò con tanto di mantello double-face   elegantissimo e scintillante come non mai The Emperor of the World. Per un’ora circa Ernie cantò e raccontò aneddoti, spesso incensandosi un po’, ma senza scadere nel grottesco. Quello che posso dirvi è che io, che di musica già a quel tempo ne avevo ascoltata davvero tanta, restai annichilito dalla potenza vocale ed emotiva, dall’intensità e dai colori che questo immenso soul man sapeva esprimere con tale talento e naturalezza. Ma il momento più toccante fu quando si congedò dal pubblico con il suo ultimo “successo” , del quale sicuramente non avrà venduto che poche sparute copie autoprodotte. Mi commossi  per il feeling, la vocalità e la profonda convinzione con cui cantò ripetutamente queste parole: “Black boy want singin’ the white boy’music, white boy want singin’ the black boy’ music. It seems so good, it seems so good when they singin’ together!!!”
In una delle zone peggiori di New Orleans, ad un passo dai project-blocks, nuovi ghetto per la popolazione nera, travestiti da intervento urbanistico-sociale, un vecchio soulman ultrasessantenne predicava sincere parole di pacificazione tra le razze.
La sera finì con la sorella di Antoinette (anche lei una delle ex-famose coriste di Ernie, le Paradise Ladies) che, visto che nessun tassista aveva il coraggio di venirci a prendere, ci riaccompagnò in Alexander street.
Io non so se Ernie-K-Doe potesse pregiarsi a ragione o a torto di una definizione terribile quale Emperor of the World, ma dacché appresi la notizia della sua scomparsa pochi mesi dopo il nostro incontro, amo ricordarlo almeno come the Emperor of New Orleans!